Non riusciva a comprendere come potesse acquistare un tale colore. Il cielo. Era arancione, a tratti rosa, di un delicato rosa pastello. Ed era tutto un susseguirsi di sfumature, colori nuovi, colori persi, colori rari.
Riusciva sempre a farla riflettere, il cielo. Cosa alquanto comune, ne convengo. Ma i pensieri che le suscitava non sempre erano coerenti, non sempre seguivano un filo logico.
Era come sottostare alla volontà di una corrente, gentile ma implacabile. Spesso si chiedeva se fosse possibile quantificare le persone che nello stesso momento guardavano il cielo. Ancora più difficile, esisteva in quel momento qualcuno che stesse pensando quello che pensava lei? O quanto meno qualcosa di simile. Ne dubitava. Una volta.
Guardò l’orologio, e si rese conto che era ora di andare. Il momento di evasione era finito, occorreva rientrare nella grigia realtà quotidiana.
Spesso si sentiva in difficoltà con le persone. Con i luoghi. Con i momenti.
Si sentiva perennemente fuori posto, perennemente inadeguata, perennemente sbagliata.
Eppure non era una solitaria. Aveva amici, una famiglia amorevole, non esternava queste apparenti difficoltà.
Spesso, cosa ancora più grave e inquietante dal suo punto di vista, poiché di persone a disagio o insicure ne è pieno il mondo, sentiva di compiere determinate azioni perchè doveva. Perchè gli altri se lo aspettavano. Perchè era quello che la società richiedeva. Perchè altrimenti qualcuno poteva rimanerci male. Ah, i sentimenti altrui: era la sua più grande chimera. Non riusciva, neanche per un istante, a smettere di pensare a cosa provassero gli altri. Era un continuo immedesimarsi, un continuo chiedersi se avesse ferito qualcuno, e come. Quello che ne ricavava, solitamente, era un penetrante, spesso, e persistente desiderio di fuggire altrove, di correre.
Si chiedeva se tutto questo riflettere e incespicare nella vita non le avesse fatto perdere delle occasioni, cosa probabile, se non certa: il suo più grande timore erano i rimpianti, e se non li aveva, se ne creava qualcuno da sé.
Spesso provava una fitta e soffocante disperazione, unita a un senso di angoscia che mai la abbandonava. Seguita, subito e senza perdere un secondo, dal disgusto e dalla collera per se stessa. Perchè non era più forte, più coraggiosa, meno ansiosa, più sicura, più audace, meno fragile, più convinta, meno emotiva, più egoista, meno riflessiva, più controllata?
Cosa aveva da disperarsi e da riflettere? Cosa non le andava in quello che era? Tutto. E niente.
Amava e odiava restare con se stessa. Amava passare del tempo con se, assecondando i suoi interessi e le sue stranezze, senza occhi giudicanti, libera di attuare ogni suo desiderio immediato.
Odiava restare con se stessa, il suo modo di analizzarsi, implacabile, severo, mai accomodante. I pensieri che creava, morbosi e inutili, che finivano per intristirla e incupirla.
Si creava false costruzioni mentali, che dovevano proteggerla, rinforzarla, ma che finivano per ricordarle, invariabilmente, quanto fosse debole.
I sentimenti. Gli amava e gli odiava. Impiegava tempo per maturarli, ma una volta avvenuto il fattaccio, per lei era la fine: ci sarebbero voluti mesi e tutta la sua forza di volontà, per ucciderli.
Non evitava le relazioni, ma in fondo, la terrorizzavano. Sapeva che provare determinati sentimenti, intensi, belli, profondi, espressivi, dolorosi, implacabili, l’avrebbero dilaniata, nell’eventualità di una fine. Per questo, nonostante la sua natura passionale ed emotiva, tentava sempre, e disperatamente, di restare distaccata, di salvare almeno un brandello di se stessa. Non era creatura che sopportasse bene la delusione. Perchè, più di ogni altra cosa, ciò che la faceva soffrire e indispettire in maniera indescrivibile era la piccola, tenace e minuscola speranza che mai le si spegneva nel cuore, anche quando la fine era già dichiarata.
I pensieri si accalcavano, si radicavano, e a quel punto non c’era nulla da fare: era in trappola, chiusa, murata.
Spesso sembrava non ragionasse, poiché le capitava di compiere azioni in apparenza senza senso. La realtà era che spesso non era li, ma altrove: e non per forza perchè la situazione presente la annoiasse o non le interessasse, ma perchè era abituata ad agire fisicamente in una realtà, e a pensare e riflettere in un’altra, diversa, nascosta, parallela, inventata, esagerata, fomentata, desiderata, temuta. I suoi pensieri aprivano parentesi su parentesi, creavano continui spettacoli, privati, con poco pubblico: solo lei come spettatrice.
Era brava a parlare, ma spesso perdeva i momenti: di fronte a persone cui tenesse disperatamente, si bloccava, indecisa su come esprimere ciò che aveva dentro. Ed era in quel preciso istante, che il magico momento adatto per ciò che pensava svaniva, detronizzato dalla sua indecisione. Aveva un ottimo istinto, ma non era altrettanto veloce nell’assecondarlo.